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Morbo di Alzheimer e inquinamento: l'allarmante caso di Città del Messico

di Giulio Trobbiani


E’ già tristemente noto da molto tempo come l’inquinamento dell’aria sia un considerevole fattore di rischio in moltissime patologie, soprattutto legate agli apparati respiratorio e cardiovascolare. Recenti studi hanno però messo in luce una forte correlazione tra l’esposizione ad inquinanti atmosferici, in particolare polveri sottili (PM2,5) ed ozono (O3), e l’insorgenza di malattie neurodegenerative, compreso il morbo di Alzheimer.


Che cos’è il morbo di Alzheimer?


Il morbo di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa progressivamente invalidante che colpisce il sistema nervoso centrale, agendo in particolare sull’encefalo, che nel corso del tempo subisce un progressivo rimpicciolimento. Viene classificato come una forma di demenza, con esordio solitamente in età presenile (oltre i 65 anni), a partire dal quale l’aspettativa di vita media si attesta dai 3 ai 9 anni.I sintomi principali di questa malattia includono: perdita di memoria, incapacità di immagazzinare ricordi di eventi recenti, depressione, irritabilità, sbalzi d’umore fino all’incapacità di articolare suoni complessi (prima frasi poi parole) di senso compiuto e di compiere una sempre maggiore gamma di movimenti (negli stadi più gravi si ha anche disfagia). Il morbo di Alzheimer, nella popolazione, colpisce il 5% degli individui sopra i 65 anni e il 20% degli ultra-ottantacinquenni e rappresenta l’80-85% dei disturbi correlati alle demenze tra la popolazione anziana.


Quali sono i meccanismi molecolari che scatenano la patologia?


Premesso che né la causa né la progressione della malattia sono completamente note, la pratica clinica ha riscontrato nella presenza di β-amiloide (indicata in seguito come βA) e di tau iperfosforilata (htau) alcuni dei segnali più comuni utili alla diagnosi della malattia. βA è un oligomero di 42 amminoacidi prodotto dalla proteina APP (precursore dell’amiloide) in caso di errato taglio proteolitico ad opera dell’enzima β-secretasi. Questa catena polipeptidica va, assieme a htau, a causare un anomalo deposito di agglomerati amiloidi (denominati anche placche senili) all’esterno dei neuroni e di grovigli neurofibrillari formati da htau in sede citoplasmatica. Tali ammassi sono situati di regola nei neuroni corticali e nelle cellule piramidali dell'ippocampo, l'amigdala, e la parte basale dell'encefalo anteriore. A questi eventi si associa una diminuzione nei livelli di acetilcolina, un neurotrasmettitore presente a livello di moltissime sinapsi associative all’interno del SNC, nonché nelle placche neuromuscolari a livello periferico.

L’impossibilità per molti neuroni di comunicare mediante le sinapsi causa la morte di queste cellule che, non potendosi rigenerare, portano nel tempo ad un’atrofia generalizzata a livello dell’encefalo, che si riduce in volume e assume un aspetto rugoso, dato dalla riduzione di sostanza grigia. In risonanza magnetica (RM) si può osservare come nell’encefalo di un soggetto affetto vi sia un ingrossamento delle cavità ventricolari, piene di liquido cefalo-rachidiano.


Figura 1:depositi di placche amiloidi nell’encefalo di un soggetto affetto


Il principale fattore di rischio genetico per la malattia di Alzheimer (AD) è l’allele E4 del gene APOE (APOE4). Il gene presenta altri due alleli, E2 ed E3 che non costituiscono però fattori di rischio aggiuntivi per la patologia. Nella popolazione generale, circa l'8% delle persone ha l'APOE2, il 78% ha l'APOE3 e il 14% ha l'APOE4 e nei portatori omozigoti di APOE4, l’età di esordio della patologia veniva anticipata mediamente di 10 anni rispetto ai portatori di altre varianti.



Figura 2 Confronto tra l’atrofia della corteccia cerebrale dovuta all’invecchiamento di un soggetto sano (sinistra) e uno malato di Alzheimer (destra)


Qual è la correlazione tra Alzheimer e inquinamento?


Un recente studio condotto da un equipe di ricercatori messicani su un campione di 203 soggetti residenti nell’area metropolitana di Città del Messico, con un’età media compresa tra i 25 e i 26 anni, ha messo in luce la correlazione tra l’esposizione ad agenti inquinanti e la prematura comparsa dei segni clinici della patologia.


Queste popolazioni sono soggette ad una continua esposizione, sia a livello prenatale che postnatale, ad una vasta gamma di inquinanti atmosferici, quali ad esempio PM2,5 ed ozono, a livelli molto superiori alla soglia massima di sicurezza fissata dall’USEPA (United States Environmental Protection Agency). Mediante metodi immunoistochimici specifici è stato possibile rilevare nei vari soggetti i livelli di Htau, di βA e di grovigli neurofibrillari (NFT), previa divisione dei pazienti per fasce d’età e per esposizione ad inquinanti (non considerando, quindi, altri fattori di rischio come la predisposizione genetica). Inoltre, nell’elaborazione dei risultati, l’equipe ha suddiviso i vari soggetti in classi (NFT stages I-VI) in base alla concentrazione di grovigli neuro fibrillari nel SNC dei pazienti.

Gli esami hanno messo in luce risultati sorprendenti: alcuni soggetti fino ai 20 anni hanno già mostrato depositi simili ai grovigli neurofibrillari (“pre-Tangles”) o grovigli veri e propri agli stadi NFT I e II a livello corticale, nonché depositi di β-Amiloide e htau in varie regioni del tronco encefalico e nei nuclei in esso presenti (sostanza nera, nuclei uditivi, nucleo del n.oculomotore, vari nuclei parasimpatici autonomi, nuclei del n.trigemino). In un bambino di 11 mesi sono stati già individuati pre-grovigli neuro fibrillari a livello sottocorticale.


Nei soggetti con età compresa tra i 30 e i 40 anni si è registrata, in molti casi, una progressione degli ammassi neuro fibrillari: il 24,8% dei soggetti ha mostrato grovigli agli stadi III-V. Lo studio ha inoltre messo in luce, in un secondo momento, il ruolo dell’allele APOE4 come fattore di rischio genetico per la malattia: all’interno del campione, i possessori dell’allele E4 hanno mostrato, a parità di altre condizioni , un rischio 23,6 volte maggiore di sviluppare grovigli neuro fibrillari allo stadio NFT V, nonché un’incidenza circa 5 volte maggiore di sintomi correlati alla patologia stessa (depressione, irritabilità), a cui è associato un maggiore tasso di suicidi.


Concludendo, credo che questo studio, per quanto ancora non siano stati chiariti nel dettaglio i meccanismi molecolari della malattia di Alzheimer, sia atto a sensibilizzare la comunità scientifica sulla necessità di definire in modo chiaro i fattori di rischio per tale malattia, la cui insorgenza, specie nelle comunità più vulnerabili, risulta essere drammaticamente prematura.



Fonti:

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